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L’ESEMPIO DI BOSKOV, ADDIO MISTER

28.04.2014 | 10:45

“Squadra che vince non si cambia” e “Rigore è quando arbitro fischia“: se avessimo applicato pedissequamente queste sue perle, più che semplici aforismi, il 99% delle polemiche non avrebbe avuto motivo di esistere, in barba a qualsiasi turnover o abuso di moviola. La dipartita di Vujadin Boskov, spirato ieri alla soglia degli 83 anni, chiude il fine settimana più triste della storia recente delle panchine, che venerdì aveva già registrato la scomparsa di Tito Vilanova. Due morti accomunate da un calvario impervio, ma di impatto assolutamente diverso: straziante quella dell’ex tecnico del Barça, strappato alla vita a soli 45 anni, rientrante nell’ordine naturale quella del maestro serbo, un esempio che con la sua ironia segnò un’epoca del nostro proscenio della pedata.

Con Boskov se ne va un’icona di un calcio che non c’è più, meno fisico e molto più tecnico, in cui per ricoprire il ruolo di difensore centrale non bisognava avere la stazza di un pugile (ma ci si faceva valere lo stesso), quello in cui Maradona e Platini facevano la differenza senza avere il physique du role dei Messi e Cristiano Ronaldo. Avete mai paragonato l’estensione muscolare delle gambe di questi 4 assi? Fatelo, Youtube e Google immagini possono servire anche a questo. Controindicazione: dopo potreste pensare che oggi Diego e Le Roi rischierebbero di non essere decisivi come allora o, piuttosto, che il valore del football attuale andrebbe riconsiderato.

Un calcio in cui vigeva la contemporaneità, la vittoria valeva due punti – pertanto giocare per il pareggio ci stava – e per tridente, salvo rarissime eccezioni, si intendeva soltanto l’arma del Dio Nettuno.

Un calcio, quello italiano, che viveva di personaggi in netta antitesi: l’Avvocato – col suo inconfondibile aplomb – contrapposto al vulcanico Anconetani, il self control di Nils Liedholm fungeva da contraltare ai fischi del Trap e ai rimbrotti del sanguigno Vuja. Che dava spettacolo in campo, di per sé e con le sue squadre, ma soprattutto negli spogliatoi, riuscendo sempre a stemperare i toni al momento più opportuno, senza perdere però di vista le mansioni dell’allenatore ideale: “Maestro, amico e poliziotto allo stesso tempo”.

Un calcio che, addetti ai lavori in primis, poteva permettersi di ribattezzare bonariamente Boskov “zingaro della panchina” senza temere querele, interrogazioni parlamentari o mannaie del Giudice Sportivo. Meno politically correct ma certamente più genuino.

Un calcio che ha fatto innamorare generazioni intere, noi adulti di oggi eravamo bambini negli anni 80: la tv accesa su un qualsivoglia programma calcistico per tanti era il giocattolo più bello, peccato per chi se li è persi.

Vujadin Boskov nasce il 16 maggio 1931 a Begeč, la cittadina sulle rive del Danubio – oggi ricadente in Serbia – in cui si è spento nelle scorse ore. Buon centrocampista, con 57 presenze in Nazionale all’attivo, milita per quasi tutta la carriera nel Vojvodina, per poi approdare alla Sampdoria appena trentenne (prima la Federazione slava vietava i trasferimenti all’estero). Un anno a Genova, due in Svizzera allo Young Boys, dove nel 1962 passa direttamente dal campo alla panchina, iniziando un lunghissimo girovagare che – nell’arco di ben 39 stagioni – lo porta ad allenare anche le altre sue ex squadre da calciatore, nell’ordine: Vojvodina, Jugoslavia, Den Haag, Feyenoord, Real Saragozza, Real Madrid, Sporting Gijon, Ascoli, Sampdoria, Roma (dove fece esordire il sedicenne Francesco Totti), Napoli, Servette, ancora Samp, Perugia e nuovamente la Nazionale jugoslava. Venendo adesso al palmarès, si contano: 1 Coppa d’Olanda, 1 Liga, 2 Coppe del Re più i successi conseguiti nell’epoca aurea blucerchiata, targata Paolo Mantovani: 1 Scudetto, 1 Coppa delle Coppe, 2 Coppe Italia e 1 Supercoppa italiana. Oltre alla promozione dalla B alla A con i bianconeri marchigiani presieduti dal grande Costantino Rozzi, l’artefice del suo sbarco nel Bel Paese. Manca la Coppa dei Campioni, che l’istrionico condottiero sfiorò in due occasioni: nel 1981, al timone del Real, e undici anni più tardi alla guida dei gemelli del gol Vialli e Mancini, alfieri di quella Doria da urlo. In entrambi i casi il sogno svanì sul più bello, in finale contro Liverpool e Barcellona, e sempre per un singolo, beffardo gol a pochi minuti dal termine: Alan Kennedy e Ronald ‘Rambo’ Koeman si frapposero tra Vujadin e il trofeo più ambito a livello di club.

La sua simpatia intrisa di saggezza mancherà a tutti, all’uomo non è dato sapere cosa vi sia nell’Aldilà, ma ci piace immaginarlo in un qualcosa di simile ad un manto erboso. Probabilmente, dopo aver radunato un manipolo di Angeli a riposo, con il suo inconfondibile sorriso direbbe loro: “Voi grandi ali, arrivato momento di imparare a crossare!”

Addio, indimenticabile Mister.

                                                                                                    Jody Colletti      Twitter: @jodycolletti