Ciao Ciro, non siamo tutti uguali

26/06/2014 | 21:30:00

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La morte di Ciro Esposito, ultrà napoletano, ha colpito tutti, così  ho deciso di raccontare la mia piccola favola per esporre la mia versione a chi crede che “l’essere ultras” è sinonimo di violenza, come purtroppo spesso riportano i media. Non è così.

Essere ultrà significa e deve significare tifare in modo passionale per la propria squadra, sette giorni su sette, difendere i propri colori sugli spalti affrontando trasferte lunghissime, sfidando le intemperie, tutto pur di essere accanto alla squadra del cuore. La differenza tra noi e gli hooligans è una, fondamentale, loro cercano la violenza, il contatto fisico con il gruppo avversario, noi no, e chi lo fa non è un ultrà ma solo un teppista.

Urge un cambio di rotta, che parta in primis dalle curve, perché alla fine pagheranno solo gli Ultras e non i teppisti, che lo sono comunque anche fuori dalla curva. Ciro è morto perché stava andando a vedere il suo Napoli e si è trovato nel momento sbagliato nel posto sbagliato, morto per mano di un delinquente infame che ha premuto il grilletto. Cosa ha a che vedere tutto ciò con il mondo ultrà? Ricordate, lo stato quella sera ha fallito e se non fosse stato per “Genny ‘a carogn”, capo carismatico dei Mastiffs della Curva A di Napoli, la serata sarebbe andata in modo diverso. Con questo non voglio dire che gli Ultras sono degli stinchi di santo. Resta il fatto che al posto di Ciro poteva trovarsi chiunque di  noi.

Per questo voglio raccontare la mia storia, come sono diventato orgogliosamente ultrà cecando di smontare quel luogo comune che ci vuole violenti ed emarginati dalla società “civile”.

Settembre 1986, ero un sedicenne, figlio di una coppia di emigranti italiani in Germania, giunto da qualche mese ad Andria, un grande comune pugliese a nord di Bari. Non avevo ancora stretto tante amicizie e quelle poche che avevo non erano tifosi di calcio.

Io invece, calciatore a livello agonistico in terra tedesca e grandissimo tifoso di calcio in generale, decisi di andare per la prima volta allo stadio Comunale di Andria per assistere all’esordio in campionato della Fidelis Andria. Non conoscendo ancora la realtà italiana avevo comunque subito notato che ad Andria tutto era diverso e così chiesi a mio nonno materno Antonio, indimenticabile e grandissimo tifoso “du Jandr” (dell’Andria), di accompagnarlo al campo sportivo. Prima di entrare nel settore dei Distinti, nonno Antonio si raccomandò in dialetto andriese: “Antonio, qui ci sono molti pazzi, sparono “bombe” (petardi), saltano e gridano in continuazione, rimani vicino a me e non ti muovere”. Rimasi sorpreso e pensai: “Mah chissà cosa potrà mai accadere all’interno di uno stadio, addirittura in quarta serie (vecchia Serie C2)”. Entrammo. Mi sentì un po’ spaesato vedendo questi ragazzi e uomini agitarsi per organizzare la cosiddetta coreografia, per salutare l’ingresso in campo delle squadre, la partita era Fidelis Andria – Ternana.  Quando le squadre entrarono in campo vennero accesi i fumogeni, odore inconfondibile, s’innalzò un coro fortissimo e tutti a cantare a più non posso. Per me fu amore a prima vista. Non ricordo nulla della partita neanche il risultato, guardavo tutti quei ragazzi e uomini tifare per la squadra della città che mi aveva adottato da nemmeno tre mesi. Mi sentii subito uno di loro, finalmente dopo mesi di solitudine, in una città a me estranea, avevo scoperto quello che oggi per me rappresenta ancora uno di quei valori e ideali non trattabili, il senso di appartenenza. A questa città, a quella “gradinata”, tutto d’un tratto avevo dimenticato le mie amicizie tedesche, i miei ricordi e trascorsi in Germania, ero diventato orgoglioso di essere andriese.

L’attesa per la seconda partita in casa mi caricò d’ansia, desideroso di sentire gli odori dei fumogeni, i tamburi, il battimani ritmato e i cori. Acquistai una sciarpa di lana biancoazzurra con la scritta Forza Andria e mi recai nuovamente allo stadio, ma con molto anticipo. Scoprì anche il nome del gruppo che “dirigeva” la Gradinata: NEW BLUE GENERATION, anche in questo caso fu amore a prima vista e individuai punti di riferimento ben precisi. Il cerchio si era chiuso, diventai uno di loro. Seguirono anni bellissimi e meno belli, la promozione in serie C1 con la mia prima indimenticabile trasferta a Fano. La storica prima trasferta in C1 a Siena nella Curva in Erba, i derby con Brindisi, Martina, Monopoli, Trani, Fasano, Casarano, Taranto, Foggia, le rivalità con Chieti, Casertana, Ternana e Perugia, poi gli anni incredibili della Serie B.

Ma l’essere ultrà non è “rivalitá e scontri” . Ci sono anche le amicizie fraterne come quelle con gli Ultras del Venezia, Lucchese, Lanciano, Barletta, Bari e soprattutto quella con i Salernitani (da ricordare anche le più recenti amicizie con gli ultras di Cosenza, Bisceglie e Vigor Lamezia) . La New Blue Generation aveva calcato gli spalti “piú temuti” del mondo Ultras ed era diventato un gruppo rispettato da chiunque ed ovunque, senza presunzione. In curva tra loro mi sentivo bene, eravamo tutti uniti, operai, medici, impiegati, imprenditori, avvocati, alti, bassi, magri, grossi. Tutti eravamo uguali senza discriminazione alcuna, il contrario di quello che accadeva e accade nella società, cosiddetta, civile. In trasferta ci si divideva tutto, soldi, panini e bevande ed eravamo uno per tutti e tutti per uno. Senza parlare delle beneficienze e di quando bisognava aiutare i più bisognosi, eravamo sempre pronti a dare il nostro contributo. Ragazzi con problemi di socializzazione che venivano portati in trasferta a spese nostre e che venivano ospitati presso la sede e in Curva, che si sentivano parte integrante del gruppo e non dei diversi.

Poi accadde quello che mai mi sarei aspettato, per motivi a me ancora oggi sconosciuti, fu sciolta la mitica New Blue Generation. Corsi la sera alla sede del club ma c’era solo tanta confusione, ragazzi che piangevano, altri che erano arrabbiati, ci era stato tolto un punto importante di riferimento. La Curva è un microcosmo dove convive di tutto e dove ci si sente come in una grande famiglia. Si sentivano tante versioni, cercavo i miei “capi” ma non c’erano. Mi sentivo morire, nel 1986 i miei mi avevano strappato dalle amicizie e dai sogni di un futuro roseo per portarmi in una città a me sconosciuta, gli ultras andriesi mi avevano ridato quello che mi era stato tolto, il senso di appartenenza, lo spirito di gruppo, i valori di un ideale e soprattutto amicizie di tutti i tipi. Nel 1998 la stessa situazione si ripresentò, la NBG, la Fidelis tutto finito, nuovamente una parte di me mi era stata strappata contro la mia volontà e mi ritrovai nuovamente solo. Decisi di non frequentare mai più la Curva Nord, non per la Brigata Fidelis che ha preso, in modo dignitoso il posto dell’insostituibile NBG, ma perché avevo paura, paura di dover rivivere ancora una volta quella bruttissima sensazione, restare solo, per me esisteva solo la New Blue Generation.

Essere Ultrá, esserlo nella mente, sempre. Dimenticavo, sono un libero professionista, sposato con due figlie, attivo nel sociale e all’epoca dei fatti ero anche impegnato come educatore in parrocchia, anche io tutt’altro che al margine della società civile.

Un invito: prima di sparare a zero sugli ultras, quelli veri, andate in curva. Hanno un volto, un nome, una storia da raccontare. Come ho fatto io.

                                                                                                                          Tony Tragno