Ultimo aggiornamento: giovedi' 28 november 2024 16:21

De Rossi: “Un allenatore deve saper essere autorevole senza urlare. Esordio? Indimenticabile”

09.06.2024 | 14:00

Nella giornata di ieri si è svolta la quinta edizione di The coach experience”,organizzato dall’AIAC. A margine dell’evento Daniele De Rossi ha parlato approfonditamente dei suoi ultimi mesi alla Roma. Il tecnico ha spiegato cosa contraddistingue il suo modo di fare e quali idee lo guidano. Ecco le sue parole: “Se mi avete invitato pensando che io voglia fare una lezione riprendo subito il treno e torno a casa. Io sono qui per imparare semmai, per confrontarmi con tanti allenatori. L’ho fatto spesso quando stavo dall’altra parte del banco, ogni esperienza avuta con qualche tecnico già affermato mi ha arricchito, magari anche con quelli che non mi sono piaciuti, perché ho capito che cosa non avrei mai dovuto fare con i miei calciatori”.

L’esordio: ” “E’ stata un’emozione fortissima, nata in 24 ore. Sì, qualche indiscrezione era già uscita, ma la leggevo sui giornali e ogni tanto capita di leggere cose inventate, invece è stato tutto molto veloce e tutto molto segreto. Il primo giorno avevo in mente di fare trenta allenamenti al giorno. Ero emozionato, anche se sono uno che le emozioni le gestisce bene. Ma la mia prima partita col Verona me la ricorderò sempre, avevo tanti dubbi, molti ne ho ancora, ma poi siamo migliorati piano piano. Ora mi guardo indietro ed è tutto normale, ma è passato tutto così in fretta. Ci tenevo a dimostrare di poterci stare per allontanare anche lo spettro del fallimento della prima esperienza. Potrebbe essere una barzelletta, ma se avessimo pareggiato e non vinto la prima magari sarebbe cambiato tutto”.

Sistemi fluidi o confusione? “Una frase che Luis Enrique ripeteva sempre è “Se avessi avuto più tempo, ti avrei scritto una lettera più corta”. La trovo bellissima. Io a volte devo trattenermi per non dare tutte le informazioni. Io penso sempre da allenatore a quello che a me da giocatore non piaceva. Avevo allenatori che facevano riunione tecnica sabato mattina, sabato sera, domenica mattina, poi prima di salire sul pullman, poi prima del riscaldamento e poi anche alla fine: “Giusto due cose”. Secondo me questo trasmetteva la loro insicurezza, non quello che volevano loro. Poi tatticamente l’importante è non chiedere cose opposte, condizionerebbe la riconoscibilità. Quello che abbiamo fatto spesso è stato anche frainteso: dire magari che giochiamo a tre se il terzo è Angelino, che poi ti ritrovi sulla bandierina, è limitante. Per me l’organizzazione vera deve riguardare la fase difensiva, devi sapere come difendere, come mettersi contro gli avversari. Per esempio noi siamo partiti con grandi pressioni offensive e dopo un paio di partite ho cambiato e ho detto loro: “Ragazzi, possiamo anche difendere più bassi, torniamo presto sottopalla e vediamo, senza cercare troppo pressioni alte o riconquiste estreme”. E li vedevo che più bassi si sentivano comodi. Poi piano piano abbiamo provato a uscire da questa schiavitù. Cambiare è bello, ma 4-5 giocatori devono essere bravi nelle letture, soprattutto riconoscere il pericolo, cosa che a noi e a me è mancato, dopo un po’ ci avevano capito e quando perdi palla sei vulnerabile. Tutte cose che col tempo impareremo/imparerò. Certo, se un giorno gli chiedo il 4-4-2 basso e il giorno dopo 3-3-4 lassù li metto in confusione. Io preferisco dare le certezze su posizioni, funzioni, modalità di espressione di gioco”.

Il potere al servizio degli altri. “Io sono stato un buon compagno di squadra, me lo dico da solo, e non ho mai abusato anche della posizione di calciatore importante, soprattutto in una città come la nostra che vive per il calcio. Il potere che avevo lo mettevo a disposizione per i compagni. Ora cerco sempre di far capire ai ragazzi che è sempre un buon momento per dire bravo al compagno anche se sbaglia o quanto meno di non far pesare l’errore, perché è quello che facevo io da calciatore e lo voglio trasmettere”.

La costruzione dal basso.  “Non può esserci un solo modo di giocare, sarebbe assurdo. Io ci credo profondamente perché penso che porti a una risposta dell’avversario. Se l’avversario resta basso addio costruzione, ad esempio. Se invece ti vengono a prendere devi essere bravo a riconoscere e pesare i rischi, ai ragazzi lo dico sempre. Io ho avuto un allenatore che ha cambiato un po’ il mio modo di vedere il calcio e ce l’ho avuto quasi a trent’anni. Era Luis Enrique e ci ha portato qualcosa di nuovo anche se ero già stato per esempio con Spalletti. Noi vedevamo il Barcellona in televisione e lui ce l’ha portato dentro casa. Per me è stato folgorante. Con lui mi sono trovato bene umanamente e anche per questi motivi. Io ero già in nazionale, ero un giocatore già formato. Eppure quando è andato via lui io ero un giocatore migliore. Questo fa un grande allenatore. Per me il più grande di tutti nelle costruzioni dal basso anche se magari a tanti non piace è Roberto De Zerbi: se lo vai a prendere ti dà una sassata col portiere a 70 metri e le sue squadre sanno esattamente come e quando farlo”.

Prima squadra o giovanile? “Io non sono voluto partire dal settore giovanile. Io ammiro moltissimo mio padre per quello che ha fatto. Un allenatore mi aveva consigliato di partire da lì, sperimentare tutto quello che volevo, avrei potuto sbagliare e non se ne sarebbe accorto nessuno, ma avrei fatto gli interessi miei o dei ragazzi? Avrei fatto quello che mio padre ha combattuto per trent’anni. Io mi sono reso conto che la mia ambizione era più importante di quella dello sviluppo del ragazzo. Se ti rendi conto di questo non puoi allenare i ragazzi. Per me dovrebbero essere due categorie distinte. Poi, per carità, se vinci sei contento, ti attacchi una bella foto con la coppa a casa e sei felice, ma non dev’essere quello il tuo obiettivo, ma prendere un ragazzo e restituirlo migliore di quando l’hai preso”.

La credibilità di un allenatore. “Aldo Serena di Mourinho una volta ha detto che nell’era dei droni, chi riesce a entrare nella testa dei giocatori sta trent’anni avanti a tutti. Ezio Capuano invece ha detto che l’allenatore deve avere innanzitutto la capacità di attrarre un livello di interesse smisurato nei suoi calciatori. Sono d’accordissimo. Io a un giocatore potrei dire: fai questo perché sei pagato per farlo e muto. Ma ogni calciatore ha una chiave diversa, e tu devi saperla aprire. E poi la credibilità te la da anche il lavoro sul campo. Quest’anno c’era un giocatore che saltava poco, osservandolo ci siamo accorti che saltava con le braccia stese lungo il corpo. Ci abbiamo lavorato un po’ e i risultati si sono visti presto”.

La riaggressione della palla. “Alla Roma abbiamo un dato che ci fa capire come dopo aver perso la palla subiamo molto presto un tiro in porta. La cosa più negativa di avere questa bella fluidità in campo è il disordine che ti crea nelle transizioni. Quando segni magari ti fanno un sacco di complimenti, penso al gol di Mancini col Milan. Ma qualche problema te lo crea quando perdi palla. E allora, se non hai tre o quattro “animali” fatti apposta per quello, diventa pericoloso. In questi mesi abbiamo lavorato sulla voglia di recuperare la palla, magari anche andando semplicemente sottopalla invece di riaggredire subito. In futuro questa è una cosa su cui vogliamo lavorare”.

Differenze tra Ferrara e Roma? “Io lavoro nella stessa maniera. Sempre alle 7 e mezza al campo andavo. Lì ci mettevo sette minuti con la bicicletta, adesso 40 minuti, così dormo meno perché mi sveglio alle 6. Però preparo l’allenamento nello stesso modo, i rapporti con i giocatori, i dirigenti, con lo staff, è tutto uguale. Cambiano le percezioni degli altri, magari. In panchina alla Spal mi mettevo le mani in tasca e mi dicevano che sembravo un coglione. Lo faccio nella Roma, e i primi tempi vincevamo tutte le partite e mi dicevano “Guarda che sicurezza che ha, addirittura tiene le mani in tasca”. La percezione che lasciamo negli altri dipende dai risultati. A Roma dopo quattro partite sembrava dovessimo riprendere l’Inter. Poi se vinci sei più bello e puoi apparire più umile. Ma è anche un po’ di atteggiamento. Ecco, la differenza è che a Ferrara ho avuto problemi di natura umana, niente di gravissimo, per carità, ma insomma non ero a mio agio, e un paio di volte non sono rimasto sereno perché anche io ho un carattere spigoloso. A Roma invece per fortuna mi trovo benissimo con tutti”.

L’importanza dell’autenticità. “Nella tesi sostenuta con Ulivieri (il presidente dell’Aiac che gli è sempre stato accanto durante l’incontro, ndr) ho scritto che non amo alzare la voce. Ma tutto parte da quello che penso di essere. Io cerco di essere autentico, di essere me stesso. Ad esempio: i discorsi che fanno gli allenatori all’inizio di un rapporto sono sempre gli stessi, no? “Io do rispetto e in cambio voglio rispetto, bisogna andare forti in allenamento, per me siete tutti uguali ecc. ecc. ”. Ma io a volte diventavo matto perché poi nei fatti non si comportavano così. Tanti erano forti con i primavera, e deboli con i grandi. E i giocatori se ne accorgono dopo un minuto. Ecco, io vorrei essere autorevole senza strillare, come quando ero calciatore. Non ho mai attaccato al muro nessuno, pochissime volte ho litigato con qualcuno. Vi faccio l’esempio di Conte: quando si arrabbiava, era vero, non era posticcio. Vedevi dentro che era lui, ti sputava il suo dolore addosso e tu ne ricevevi carica. Sbroccava dopo una partita andata male o un brutto primo tempo. Se io lo copiassi sarei ridicolo. Non lo saprei fare, anche se in lui lo apprezzavo. Io preferisco parlare senza urlare e mi è capitato magari di andare dal giocatore forte a dirgli “Hai fatto cacare, devi vergognarti, devi correre di più”. Non serve urlare, gli altri venti lo capiscono. E nello stesso tono lo dici al primavera. Poi mi è capitato di sbroccare e magari lì l’ho fatto anche per presentarmi un po’ meglio ai miei ex compagni di squadra… Vi racconto l’ultimo episodio, relativo al derby. Io ho rispetto per la Lazio. Ma in preparazione della partita volevo spiegargli quanto fosse importante per noi battere la Lazio, oltretutto non vincevamo da tanti derby… Però vedevo che il messaggio non arrivava. Allora ho cambiato strategia: al portoghese ho chiesto “tu che squadra odiavi quando eri ragazzino? Lo Sporting Lisbona”. Al turco: “E tu?” “Il Fenerbahce”. Al tedesco, al francese e agli altri ho fatto la stessa domanda e li ho caricati: “Ora pensate che dovete giocare contro la squadra che odiavate da ragazzini e rompetegli…”. 

Foto: twitter Roma