A volte è semplicemente questione di atteggiamento: c’è chi, trovandosi ad affrontare una nuova sfida, ha una predisposizione migliore rispetto ad altri individui. È un po’ il caso di Hatem Ben Arfa, specializzato nelle partenze a razzo e nelle buone impressioni. A scuola ci dicevano che era tutto: Hatem la scuola l’ha frequentata poco, il padre calciatore aveva da subito capito il figlio da chi aveva preso e non ha insistito più di tanto per la sua formazione extrascolastica. Anche perché la Clairefontaine, che il talento ha frequentato, è una specie di istituzione nel paese: è la Harvard del calcio francese, tutti i giovani della regione intorno alla capitale, se sono bravi, devono andare lì. Anelka, Henry, Gallas: tutti campioni passati da lì, nella foresta di Rambouillet. Hatem non fa eccezione, nemmeno per quanto riguarda la scelta della nazionalità: è francese, si sente francese, sceglie da subito i Blues per le selezioni nazionali. Ma mentre ai campioni del passato, come Zidane, si perdonava il “rifiuto” delle proprie origini, oggi il pubblico maghrebino non riesce proprio a fare il tifo per Ben Arfa, reo di aver abbandonato un posto da re in Tunisia per un posto da paggio in Francia. Ad Hatem, ovviamente, importa ben poco. Perché oltre ad un talento inesauribile, Ben Arfa ha in comune con il Pelide una certa noncuranza del pensiero comune (anche una certa irascibilità come avrete intuito, ma ci arriveremo). L’ultimo coach che lo ha allenato all’Hull City, Steve Bruce, ha detto di lui: “Ha talento certo, ma senza il lavoro non si va da nessuna parte”. Come dire, sempre restando in tema scolastico, “è intelligente ma non si impegna”. Forse, ma a volte Ben Arfa non ne ha bisogno. Passato dalla Clairefontaine alle giovanili del Lione per 150.000 euro, “le prodige” ci mette due anni per esordire in prima squadra e si conquista da subito un suo spazio, nonostante davanti a lui giochi un Florent Malouda all’apice della sua carriera. Ma i problemi con il presidente Aulas lo portano via, verso Marsiglia. E qui accade una specie di Affaire Ben Arfa: il trasferimento sembra fatto, 11 milioni il costo dell’operazione, ma mancano dei documenti. Il Lione non ci sta e comunica che finché non la situazione non si aggiusta il giocatore non fa le visite mediche. Hatem, dal canto suo, afferma pubblicamente che lui al Lione non ci torna, che a Marsiglia c’è il suo cuore e senza non ci gioca. Alla fine serve una specie di Camp David tutta francese, con proprio il giocatore, moderno Bill Clinton, a mediare al tavolo tra i presidenti di Marsiglia e Lione. Al sud le cose però non cambiano: litiga con gli allenatori, con tutti e due che lo hanno avuto. A Deschamps suggerisce di non rompergli le scatole in allenamento (immaginate la scena con un colorito slang francese); a Gerets ancora prima aveva riservato un secco rifiuto di entrare in campo in una ormai certa sconfitta con il PSG, sul 4-2, a pochi minuti dalla fine. Purtroppo per lui, i tecnici francesi non sono collerici, ma nemmeno dimenticano. Gerets lo fa giocare le successive due partite dopo l’affronto, ricevendo in tutta risposta un gol e 4 assist dal talento francese, ma poi lo relega silenziosamente e gradualmente in panchina. Stessa cosa Deschamps: alla stampa afferma che la crisi non c’è, ma a fine a anno non ha dubbi, Ben Arfa va via. Al Newcastle, dove si presenta con un gol all’Everton da 25 metri. Poi il nulla, ma non per colpa sua stavolta: De Jong entra duro su di lui e quasi gli blocca la respirazione, fratturandogli due volte la tibia ed una il perone. Pur non sopportando i falli troppo cattivi e venendo quasi alle mani per questo con Cissè e Squillaci, stavolta, con la maschera d’ossigeno ed in barella, il nostro Achille non può reagire e deve restare fuori dal campo per sei mesi. Nonostante ciò, i Magpies decidono di riscattarlo per 6 milioni. Quest’anno il prestito all’Hull City, dove, come abbiamo visto ha figurato ben poco. Adesso la nuova sfida col Nizza, sperando che sia il treno, anzi la biga, buona.