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L’ULTIMO MANCIO

08.08.2016 | 23:45

Non sembrava più lui, piuttosto il duecentesimo allenatore sulla faccia della terra. Eppure doveva essere lui, al secolo Roberto Mancini. Il numero uno tra gli ispirati, il predestinato a riportare la Beneamata nei territori di competenza, non all’interno della mediocrità. Non sembrava più lui, non era più lui, game over.
Quando i capricci di sempre si aggiungono al fallimento tecnico o tattico, qualsiasi proprietà al mondo – non soltanto quella cinese – ti scarica. Quando un regista produce filmetti di bassissimo profilo, al giro successivo salta. Quando un direttore di banca non riesce più ad avere il controllo di impiegati e cassieri, siamo ai saluti. Quando il parroco non sa più dire la messa, non può sperare di restare lì soltanto perché sapeva dirla bene cinque anni fa. E proprio così si è consumato l’ultimo Mancio.
E’ arrivato petto in fuori, il 2014 stava per consumare gli ultimi respiri, per porre finire alle incompiute di casa Mazzarri. Se vogliamo ha fatto peggio, molto peggio. Perché rispetto al suo predecessore ha avuto carta bianca, le chiavi della porta e della finestra, sapeva lui come e quando entrare. E’ arrivato con la nomea del manager all’inglese, con il desiderio irrefrenabile di condurre il mercato, di incidere come non mai. Ha fatto spendere un mare di soldi: ha preteso Shaqiri per poi scaricarlo; ha fatto un casino del diavolo per Felipe Melo con i risultati che conosciamo; ha alzato un pressing assurdo pur di avere Jovetic e anche in questo caso beh lasciamo perdere. Perché se un allenatore mediamente avesse il 20 per cento di quanto ottenuto da Robi con i risultati che conosciamo, durerebbe non più di sei mesi, altro che quasi due anni. Fino a quando Thohir non l’ha inquadrato bene, fine del disastro. Perché è stato proprio Erick, che qualche settimana fa lo aveva definito il fuoriclasse-valore aggiunto dell’Inter, a spingerlo verso il burrone. Consigliando la svolta ai cinesi, anzi avallandola al cento per cento visto che i nuovi padroni avevano mandato in avanscoperta Piero Ausilio facendogli incontrare il predestinato De Boer. E così sia.
L’ultimo Mancio ve lo abbiamo raccontato nei dettagli e in assoluta anteprima. Abbiamo constatato come lui non sia più quello di una volta. E per questo speriamo che torni a esserlo presto, per il bene suo e di chi fa il tifo per le sue intuizioni in panchina. Il ragazzo capriccioso e ribelle di sempre ha lasciato ultimamente spazio all’allenatore che pretende e che intende invadere campi e settori non di sua competenza. Se sono dipendente non posso pensare di essere ogni giorno membro del Cda. E se in passato me l’hanno concesso per qualche mese, e me la sono giocata male, a maggior ragione da un momento all’altro possono decidere che non è più il caso di continuare con quel giochino. Costo una tombola. E se non accetto il ridimensionamento, come ha fatto l’eterno ragazzo di Jesi, alla fine mi dicono di accomodarmi alla porta. Senza pietà e malgrado un plotoncino di giornalisti amici che lo difenderebbero anche se ne perdesse 18 su 20. E non gli danno una mano.
A Mancini una fantastica buonuscita, il conto in banca resta da urlo, ma il rimpianto enorme – quando a freddo potrà rivisitare il tutto – di non aver mai inciso come il tifoso nerazzurro medio ha sperato fin dai primi momenti del suo insediamento. Non ci permettiamo di dare consigli, ma soltanto di esprimere opinabilissimi pareri: la prossima volta eviti, in qualsiasi club, di montare quella filippica lunga mesi e mesi, come ha fatto con Yaya Touré. Semplicemente perché provoca effetti nocivi, non fa altro che mandare il costo del cartellino alle stelle, trasmetterebbe pruriti e nervosismi a qualsiasi tipo di presidente. Anche al più disponibile sulla faccia della terra.
L’ultimo Mancio è il tramonto di un sogno, di un inno e di una speranza. Sensazioni nerazzurre che lasciano spazio ai rimpianti. Come quel volo di rondini svanito. Come quell’atterraggio atteso per circa due anni e tramutatosi in ammaraggio. Peccato.

Foto: Twitter Inter