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MILAN DA PIANGERE

18.01.2015 | 23:15

Certo, Pippo parla di lavoro. Ogni sconfitta del Milan è il solito ritornello: “Con il lavoro speriamo di uscire, di migliorare, di capire”. Inzaghi mette il disco, forse sarebbe bene non parlarne proprio. Perché non ci sono parole per spiegare certe prestazioni, di livello talmente basso che si farebbe fatica a riconoscere uno straccio di Milan.

Quando Inzaghi è stato nominato, giustamente ha trovato tutta – o quasi tutta – la stampa a favore. Noi compresi. Ora pullulano i nostalgici di Seedorf. La freschezza del personaggio e l’entusiasmo dell’eterno ragazzo avevano spalancato il portone della curiosità. Annessi e connessi crediti concessi a prescindere, semplicemente perché stiamo parlando di un signore che ha sempre strappato simpatia e consensi. Per la sua grande professionalità, per l’istinto di mettere la bresaola davanti a tutto: mai uno sgarro altrimenti non sarebbe arrivato fino in fondo, epilogo di una carriera da attaccante semplicemente mostruosa.

Poi, però, finisce l’effetto simpatia. E nasce un’altra storia: ovvero quella di giudicare l’ex calciatore che diventa, giovanissimo, padrone di una delle panchine più ambite al mondo. Nessuno gli avrebbe chiesto o gli chiederà la luna, tutti conoscono i limiti delle ultime sette-otto sessioni di mercato. Oggi, non da oggi, il Milan non investe più, deve accontentarsi. A costo di prendere Torres e di sbarazzarsene dopo non troppe settimane e dopo non averlo considerato un titolare fisso. Per la storia del “falso nueve” e dintorni, mah.

Quando finisce l’effetto simpatia, anche un uomo di mondo come Pippo sa che arriva il momento delle prime sentenze. Non definitive, e forse neanche troppo parziali, comunque indicative. E le prime sentenze portano a considerazioni trancianti. Una, soprattutto: è impossibile che una squadra come il Milan giochi partite come quella contro l’Atalanta. Oppure contro il Sassuolo. Oppure contro il Palermo. Impossibile. Una cosa che non può stare in cielo o in terra, siamo ben sotto il vuoto pneumatico. In mezzo a questi orrori, perché di orrori si tratta, la parentesi di otto giorni fa in casa del Toro, quando il secondo tempo del Milan era stato una cosa che – al confronto – il più catenacciaro allenatore al mondo si sarebbe sentito, almeno per una sera, il più moderno in circolazione.

Prima di fare un’ulteriore scorta di alibi, magari tutti condivisibili, bisognerebbe andare al cuore del problema. A maggior ragione se davvero si vuole bene al Milan, dal profondo dell’anima. Bisognerebbe smetterla di pensare che, al minimo problema, si debba rimediare andando sul mercato e comprando attaccanti su attaccanti. Esterni offensivi su esterni offensivi. Trequartisti su trequartisti. Al Milan piace Destro? Certo, ma se Inzaghi non gioca con il centravanti puro, non sappiamo di cosa stiamo parlando. Tuttavia il problema non è questo. Il problema è che, pur concedendo – ripetiamo – tutti gli alibi di questo mondo, bisogna cercare di giocare. Non di giocare meglio, attenzione, ma di giocare e basta. Quindi di tirare almeno tre volte in porta in un tempo, senza far trascorrere l’intera ripresa – come contro l’Atalanta – con una monotonia davvero esasperata. Al punto da pensare che il Milan, in quel modo, avrebbe potuto attaccare fino a martedì pomeriggio senza fare alcun graffio a Sportiello. Neanche il minimo solletico. Domanda: si può arrivare a questi livelli? No, lo diciamo con simpatia, avendo garantito la disponibilità di tempo necessaria a un allenatore fresco di nomina.

Oggi è fumo di Pippo. Domani, magari, sarà caviale e champagne. Ma l’attuale messaggio, trasmesso a milioni di rossoneri nel mondo, è forse (senza forse) più sconfortante di un’altra eventuale stagione fuori dall’habitat naturale rossonero. Ovvero, la Champions. Lo dicono i fatti e le ultime recite. “Lavoreremo”, dice Inzaghi. Certo, ma soprattutto in fretta. Non conterà solo vincere o perdere, conterà dare presto un segnale vero (non sprazzi) di Milan.