PROFESSIONISTI DEL PALLONE. SPESSO BAMBINI
22.08.2017 | 00:00
È stata l’estate di tanti signori professionisti. Molto ribelli. E quindi praticamente bambini. Qui non ci sono regole: se accadesse in un normale rapporto di lavoro quanto accaduto in diversi club prestigiosi, non ci sarebbe scampo. Lettera sul tavolo, licenziamento per giusta causa. E se proprio hai voglia trovati un altro lavoro, con me hai chiuso. La colpa è anche, soprattutto, di quel drappello di agenti – chiamiamoli così – spesso artefici (?) di consigli che servono soltanto per gonfiare il conto in banca di chi rappresentano. E quindi anche il loro.
Keita non si presenta all’allenamento, i certificati di Bernardeschi, quelli di Kalinic, Spinazzola che dice “scusate, ma non parto per l’amichevole”, Dembelé da “Chi l’ha visto?” per una giornata intera in casa Borussia Dortmund, Coutinho che per il Barcellona si getterebbe dal cinquantesimo piano di un grattacielo. La lista è lunga, potrebbe essere infinita. Ma lascia, soprattutto, la sgradevole – eufemismo – sensazione di un carro ormai fuori da qualsiasi controllo. Come quel kamikaze che si lancia a folle velocità: non ci sono regole, piuttosto l’importante è rompere con il club, non importa come e perché, non importa soprattutto se si tratta di quello stesso club che versa il bonifico puntualmente ogni mese. Anzi, un minuto prima piuttosto che mezz’ora dopo.
Sono professionisti, in fondo ribelli, spesso bambini. È vero che alla fine ottengono ciò che vogliono e proprio questo è il punto. Se non ottenessero, sarebbero più prudenti. E conterebbero fino a cento prima di comportarsi in un certo modo. Prendiamo Keita: vuole la Juve, ha scelto la Juve, freme per la Juve. Bene. Ma se ci mettesse la faccia lui ogni tanto, anziché ripararsi dietro le comode ricostruzioni del suo agente Calenda, sarebbe il massimo. Si sente psicologicamente a terra perché non gioca una finale di Supercoppa: pensasse a come si sentono quelli che non riescono a far quadrare i conti il giorno dopo rispetto alla sera precedente. Kalinic è riuscito a superarsi: a gennaio avrebbe potuto andare in Cina consentendo alla Fiorentina di fare un colpo da circa 50 milioni. Disse no, si presentò di notte per dire che “aveva rifiutato e che sarebbe stato orgoglioso di restare”. La Viola non lo avrebbe certo trattenuto, lui era libero di accettare. Poi i suoi capricci: legittimo il desiderio di andare al Milan, è stato accontentato, un po’ meno il metodo di disertare gli allenamenti senza avvertire per rintanarsi in Croazia alla prima occasione. Anche Kalinic si sentiva depresso psicologicamente, come i bambini quando mammina non dà loro la caramella. Ma se hai 30 anni o giù dii lì, guadagni bene e non rispetti chi onora il contratto ogni santo mese, indipendentemente dai gol che fai, significa che hai capito poco della vita. E che se il fine giustifica i mezzi, andare al Milan, ci sarebbero stati altri mille modi. Tanto al Milan ci sarebbe andato lo stesso. Non ce l’abbiamo con Kalinic, ma con questo sistema che porta a calpestare i principi più elementari.
Un giorno la mamma disse al bambino: “Quando sarai grande, mettici la faccia sempre, prenditi le tue responsabilità. Chiedi una cosa e se non te la danno ottienila con le dovute maniere”. Loro sono professionisti del pallone, sono ribelli, ma spesso bambini. E chissà se hanno ascoltato la mamma, da piccoli…