Quando il calcio era immaginazione
Sono entrato, per la prima volta, in uno stadio nel maggio del 1981, avevo sei anni e da allora non ne ho più potuto fare a meno. Erano anni in cui sulle maglie non apparivano scritte di alcun genere; imperavano solo e soltanto i sacri colori della maglia, sempre la stessa, e l’unica eccezione era rappresentata dal numero. Si immaginava chi avrebbe indossato il 3 o l’11, mentre i 23, i 45 o i 77 rievocavano esclusivamente le estrazioni del lotto o le riunioni natalizie. Il grigio degli spalti gradualmente scompariva coperto dagli striscioni, dalle bandiere, dai vessilli ed il silenzio precedente l’inizio della partita era interrotto dal ritmo scandito dei tamburi; gli occhi del piccolo tifoso si illuminavano alla vista di tale passione. Un suono continuo, incessante che avvolgeva e coinvolgeva tutto lo stadio, non un unico settore. Si seguiva la partita con trepidazione rivolgendo, di tanto in tanto, lo sguardo al vicino che ascoltava alla radio voci indimenticabili. Si immaginava il campo verde, il tifo e le azioni descritte dall’alternanza di quelle stesse voci testimoni dei ricordi tra i più belli ed innocenti dell’infanzia. I calciatori erano eroi senza tempo e gli Altobelli, i Baresi, i Conti, gli Antognoni, i Cabrini indossavano come unico indelebile tatuaggio la maglia, sempre la stessa. Semplicemente per questo, il tifoso, innamorato di quei colori, immaginava di vincere, sol perché il suo sentimento, ancora una volta, non sarebbe stato tradito.