SHEVA 40, DA RE DELL’EST A CT NEL MITO DI LOBANOVSKI
29.09.2016 | 10:50
“Generazione di fenomeni”, cantavano gli Stadio nel 1991. Cosa c’entrano i vincitori dell’ultimo Sanremo, dalla denominazione così calcistica, con il nostro consueto approfondimento quotidiano? È presto detto. Ronaldo-Totti-Shevchenko, un tridente nemmeno ipotizzabile in un fantacalcio privato d’inizio millennio: quasi impossibile avere crediti a sufficienza per strappare tutti e tre alla concorrenza degli amici di Lega. Un tridente accomunato però da mese e anno di nascita: il 22 aveva aperto giustappunto il Fenomeno, due giorni fa era toccato all’ex Pupone e oggi a soffiare sulle 40 candeline è il Re dell’Est, fresco di nomina sulla panchina della sua Ucraina, con un pezzo di Milan come Mauro Tassotti a seguirlo – da vice – nella sua nuova avventura da commissario tecnico. Già, la generazione di fenomeni di cui parlavamo nell’incipit può benissimo essere quella del 1976.
Il 29 settembre di quell’ottima annata a Dvirkivscyna, alle porte di Kiev, viene alla luce il piccolo Andriy Mykolayovych Shevchenko. Nel 1986, in seguito al disastro di Chernobyl, la famiglia è costretta a spostarsi a Maceivka per sfuggire alla tremenda nube tossica. Lo stesso anno baby Sheva viene bocciato da una scuola calcio di quella che alla fine del ‘91 diverrà la capitale dell’Ucraina, per non aver superato una prova di dribbling, ma si rifà con gli interessi venendo preso nel vivaio della Dinamo, una delle società più blasonate dell’allora Urss, poi discioltasi. Non poteva essere altrimenti considerata la presenza in panchina di Valery Lobanovski, ai tempi anche commissario tecnico della Nazionale sovietica, che qualche anno dopo – all’atto III sulla panchina della Dinamo Kiev (iniziato nel 1997) – gli consente di esplodere definitivamente nel mondo del calcio. Dopo aver svolto tutta la trafila delle giovanili ed aver esordito in prima squadra nel 1994, Sheva si consacra infatti agli ordini del Colonello, in tandem con Sergei Rebrov, guarda caso attuale allenatore della Dinamo. Memorabile la sua tripletta al Camp Nou nel primo tempo contro il Barcellona, edizione 1997-98 della Champions League, l’anno dopo ne fa due al Real Madrid (quasi par condicio), trascinando la squadra di Kiev fino alla semifinale e laureandosi capocannoniere della Coppa dalle grandi orecchie (contando anche i gol dei preliminari) unitamente a York del Manchester Utd, uno dei due Calypso Boys, l’altro era Cole. Stesso traguardo centrato successivamente nel 2006. Saluta temporaneamente la sua casa, dopo 127 gol, 5 campionati e 3 Coppe nazionali, nell’estate del 1999, quando passa al Milan per circa 25 milioni di dollari. Con il Diavolo scrive la storia nel corso di un glorioso settennato, vincendo 1 scudetto (suo il sigillo della matematica, contro la Roma), 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa italiana, 1 Supercoppa Uefa e, soprattutto, 1 Champions League. Quella Champions League. Vinta a Manchester nel 2003, sulla pelle della Juve e dopo aver eliminato l’Inter in semifinale. L’ultimo penalty della lotteria? Il suo, a spiazzare Buffon e far esplodere il tripudio rossonero all’Old Trafford. Apoteosi scalfita solo in parte dalla finale maledetta di Istanbul, storia del 2005, con Dudek a parargli di tutto, rigore compreso. Ben 175 le reti messe a segno nelle 322 gare ufficiali disputate con il Milan, con il Pallone d’Oro del 2004 ad illuminare la bacheca. Il giusto riconoscimento individuale per un attaccante completo, in grado di eccellere in ogni fondamentale e segnare in tutti i modi. Destro, sinistro, di testa, da fermo, in acrobazia: per Sheva non faceva differenza, l’importante era bucare il portiere avversario. Sempre e comunque. Prima o seconda punta? Indifferente, il suo fisico compatto e scattante (181 cm per 72 kg) gli consentiva di fare comunque il bello e il cattivo tempo in avanti. Nell’estate del 2006 per 45 milioni si trasferisce al Chelsea, adducendo come motivazione la scelta di vita assunta con la moglie Kristen Pazik, che dal 2004 al 2014 gli ha dato 4 figli. A Londra inizia la sua parabola discendente, al palmarès aggiunge 1 FA Cup e 1 Coppa di Lega ma sotto porta non brilla più: 9 gol in Premier in due anni, 13 nelle altre competizioni. Nell’estate del 2008 torna in prestito al Milan, senza fortuna: zero gol in A in 18 presenze, uno in Coppa Uefa e uno in Coppa Italia. Di qui la decisione di riavvolgere completamente il nastro, a chiusura del cerchio: ultimo triennio da giocatore nella Dinamo Kiev, altre 30 segnature e 1 Supercoppa d’Ucraina levata al cielo. Nel 2012 Andriy appende le scarpette al chiodo e prova l’avventura in politica, accantonando però ogni velleità dopo il primo flop. Nel febbraio del 2016 entra nello staff della Nazionale, da miglior marcatore di tutti i tempi (48 gol in 111 partite), come collaboratore dello stesso Mykhaylo Fomenko che la Federazione gli ha chiesto di sostituire il 12 luglio scorso. Ct? Sì, sperando di ripercorrere almeno in parte le orme del suo mitico maestro Lobanovski, che chiuse allenando l’Ucraina (e al contempo l’immancabile Dinamo). La “prima” ufficiale, sfida valida per le qualificazioni mondiali, è andata discretamente lo scorso 5 settembre: 1-1 con l’Islanda rivelazione dell’ultimo Europeo.
Per Sheva sono 40, sempre oggi di anni ne fa il doppio Silvio Berlusconi: doppi auguri in salsa amarcord per l’ambiente rossonero, che in prospettiva futura si auspica che presto – dalla Cina – arrivino le risorse necessarie per tornare ai fasti di un tempo. E, perché no, pescare sul mercato un vero erede di Andriy Shevchenko, capace di riscrivere la storia e risvegliare un senso di appartenenza attualmente in piena quiescenza.
Foto tratte da: Facebook ufficiale Shevchenko